I

la nuova personalità e la nuova poesia leopardiana

1. Ripercorrendo sinteticamente tutta l’attività poetica del Leopardi fino al periodo che chiamiamo dei “nuovi canti”, mi sembra di potere in modo definitivo precisare dei momenti attraverso i quali il nucleo originale del poeta e quindi sostanzialmente la sua poesia, si sono venuti chiarificando oltre i limiti della cultura e del piú immediato temperamento. Sono momenti molto lati, non rigidamente cronologici, ma che della cronologia si servono a scopo empirico là dove essa può indicare una successione e uno sviluppo di forma poetica, di caratteri stilistici. Ché certo, se nella prima giovinezza del Leopardi coesistono negli stessi anni diversi motivi, varie tendenze, in seguito si può con molta sicurezza distinguere un periodo Pisano-Recanatese, in cui sono compresi i grandi idilli, da quello Fiorentino-Napoletano dei nuovi canti.

Senza voler sforzare queste equivalenze pericolose e fragili, possiamo giustificare con argomenti interni il seguente processo nello sviluppo della poesia leopardiana: dopo un’attività disordinata di tentativi interessati, asserviti anche alla sete della gloria e della felicità, tentativi che sboccano nella cultura (classicista) o nello sfogo di temperamento (crudamente romantico), l’esigenza culturale si impone e provoca l’attività frammentistica dello Zibaldone.

Contemporaneamente l’originalità del poeta produce uno iato fra poesia e cultura nei primi idilli, che poi cerca di colmare (è un poi del resto di successione piú ideale che cronologica) portando la poesia nella cultura, nella storia e dando luogo cosí alle canzoni che vanno dall’Ad Angelo Mai all’Ultimo canto di Saffo.

Il nucleo originale del poeta regge la prova della cultura e della costruzione storica e ne esce anzi invigorito, addestrato ad ampi respiri.

Nello stesso Zibaldone, che rappresenta lo sforzo speculativo piú disordinato ed extrartistico del Leopardi, il nucleo originale, fondamentalmente romantico, scuote sempre piú il classicismo di cultura fino a renderlo una morta scoria, e il poeta, dopo la distruzione degli assoluti vuoti e metafisici, prova una nuova sete di concretezza ideale.

Il Leopardi sente il bisogno di proiettare le sue teorie filosofiche nella vita, di esprimerle organicamente, artisticamente, e, poiché in questo senso il tentativo era nelle canzoni storico-culturali fallito, viene respinto a creare un mondo nuovo, il mondo della triste realtà, dell’essere superato, senza speranza, dall’anelito a quello che dovrebbe essere, in un forma sempre artistica, ma senza le leggi della metrica e della tradizione poetica. Nasce cosí il mondo delle Operette morali, unica espressione di un lungo periodo durante il quale i Canti tacciono. Ma non per il fatto che sono in prosa, le Operette possono essere escluse dal processo di formazione della poesia leopardiana, ché anzi questa vi guadagna una concretezza ed una cristallinità che non erano nelle canzoni precedenti e che permettono la sicurezza del periodo seguente; insomma le Operette non sono una parentesi ma un nodo vitalissimo.

Già nelle stesse Operette, alla fine, si superava idealmente la posizione amara e senza conforto, il deserto arido di quel periodo, prospettando il nuovo bisogno del poeta di rasserenare sentimentalmente il proprio dolore pur sapendolo irrimediabile e senza termine. Anche lo Zibaldone, che va sempre piú assottigliandosi, acquista diverso valore: vi si parla di ricordanza, di romantico (cioè “vago”) = poetico, vi si prepara insomma il mondo dell’idillio.

Le pagine dello Zibaldone di questo periodo e il Dialogo di Plotino e Porfirio aprono cosí il periodo Pisano-Recanatese durante il quale l’attività speculativa completamente trasformata continua fiaccamente, lasciando libero luogo all’espressione della vera originalità del poeta: il passato, la ricordanza, la lontananza nostalgica caratterizzano, riassunte nella denominazione di “idillio”, il nuovo periodo che si chiude con le blande domande metafisiche del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

In questo periodo i piú tenaci bisogni spirituali, filosofici, che avevano seguito il poeta durante le Operette, sembrano assopiti, superati momentaneamente, o meglio, trasfigurati in una posizione meno assillante e impaziente, appunto idillica. In questa speciale posizione il presente è evitato, girato o contrapposto come doloroso e deprecabile al passato, alle illusioni svanite, madri di ogni felicità, il proprio io smagato, incapace di vita attiva è confrontato con la natura e con gli esseri naturali che vivono senza coscienza della amara verità, nel flusso continuo della vita quotidiana.

Quindi armonizzazioni, canto, proporzioni fra centro e particolari, importanza dello sfondo della scena, smorzati piú che crescendo, ricerca del ‘vago’, di parole sfumate, di ogni mezzo per sprofondarsi nel ricordo e nella lontananza, per evitare il presente, la realtà. Ormai il Leopardi è libero dalla cultura, pienamente padrone della tecnica, si trova insomma su un gradino superiore di fronte ai periodi precedenti. Ma quel continuo anelito ad un’espressione unitaria, all’unificazione delle due attività: poesia e pensiero, che forma uno dei fili conduttori isolabili nel complesso sviluppo leopardiano, non è certo soddisfatto nel periodo degli idilli cosí che chi si arrestasse a questi, troverebbe quell’aspirazione troncata, perderebbe qualcosa di quella linea che conclude tutta l’anima leopardiana. Resterebbe un conato irrealizzato verso una personalità piú piena e verso una forma in cui non si debba distinguere poesia da ragionamento ma in cui anzi poesia e ragionamento siano radicalmente fusi, compenetrati, inscindibili[1].

Un altro motivo che possiamo isolare entro la precedente attività leopardiana è quello di un progressivo affermarsi di romanticismo che va sempre piú concretandosi durante le canzoni e che sembra fermato nella conclusione armonica dell’idillio come senso del vago, dell’indefinito, del nostalgico. Nel nuovo periodo invece (il periodo dei nuovi canti) si afferma sempre piú un sostanziale romanticismo di natura spiccatamente individualista, costruttivo, sia che neghi o che affermi, mirante a porre in primo piano la personalità del poeta e a rompere ogni barriera, ogni tradizione, verso una forma che è appunto quella già enunciata come “personale”, vigorosa, antidillica: dopo l’idillio sorgeva nel poeta il bisogno coraggioso di porsi di fronte al presente, alla vita, di affermarvi la propria personalità.

In conclusione era tutto un insieme di motivi che possiamo ridurre ad una nuova ampiezza spirituale, ad un aumento della personalità del poeta fattasi impetuosa, impaziente, con scia del proprio significato e della propria potenza. Il nuovo Leopardi è piú virile, piú maturo e quindi portato a crearsi una nuova forma adeguata al suo nuovo accento spirituale, una forma meno armonica e piú vigorosa. È questa la poesia che vive dal Pensiero dominante alla Ginestra e che consiste in una espressione originale, personale, tutt’una con il nuovo spirito del poeta e quindi energica, sprezzante di ornatus, di compostezza ed atteggiata risolutamente a pigli, a scatti piú che a proporzionate armonie. Non armonica, ma vigorosa: il che non vuol dire sciatta, frettolosa, ché anzi della sicurezza del nuovo gusto ci saranno magnifica prova, oltre l’esame delle poesie di questo periodo, le correzioni fatte nell’edizione del ’35 ai canti precedenti.

Ed è da premettere che da parte nostra non si vuol fare questione di meno e di piú, non si vogliono fare scale di superiorità, classificazioni, non si vuole affermare uno sviluppo estetico in senso migliorativo, considerando il momento degli idilli come momento inferiore, manchevole, ma si vuole solamente stabilire, definire un nuovo tipo di poesia, un nuovo periodo poetico che ha suoi caratteri, suo gusto ben distinti da quelli dei periodi precedenti. E si vuole anzitutto mettere in chiaro che la novità essenziale di questo periodo consiste nella nuova forza spirituale del poeta, nella sua nuova posizione rispetto alla vita, nel suo nuovo vigore di fede: forza spirituale, senso della personalità che fanno il Leopardi (tanto per dare un indice e non certo per fare paragoni di valore riguardo agli idilli) piú dantesco e petrarchesco che non metastasiano, arcadico.

Il nuovo Leopardi è piú grande spiritualmente del vecchio: la nuova poesia ha il suo centro intimo in questa accresciuta potenza e profondità spirituale.

Valutare quindi la nuova personalità del poeta mi sembra indispensabile per intendere concretamente la poesia dei nuovi canti.

2. Per capire questo Leopardi che ho affermato spiritualmente piú maturo, conscio della propria grandezza, e sempre piú intimamente eroico quanto piú sente coincidere le proprie esigenze individuali con la salvezza di tutti gli uomini, credo necessario partire da una valutazione sintetica delle nuove situazioni di vita in cui il Leopardi venne a trovarsi all’inizio e durante tutto questo periodo.

Veramente si prova un grande ribrezzo a parlare di esterno, di fatto, di avvenimento biografico in vicende di cosí alta spiritualità, ma d’altronde, in realtà, non v’è nulla di esterno, di dato, di natura in ciò che riguarda lo spirito ed è accettabile in uno studio di critica estetica tutto ciò che della vita di un poeta può servire a rendere piú chiara la interpretazione della sua arte. Perciò parlando dell’amore, delle amicizie del poeta in questi ultimi anni, non intenderemo davvero porre una relazione deterministica, tanto piú che se la reciprocità assoluta di causa e effetto tra vita e poesia vale per ogni artista, maggiormente vale per una natura cosí intima, cosí poco vistosa come fu quella del Leopardi, la cui vita fu povera esteriormente ed interiormente ricchissima all’opposto, ad esempio, di quella di un D’Annunzio, tutta sfarzo esterno e limitato contenuto spirituale.

La valutazione della nuova personalità, della nuova vita sarà dunque una preparazione, uno sfondo su cui collocare l’espressione pura dei canti di questo periodo.

Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia fu compiuto il 9 aprile 1830, poco prima che il poeta abbandonasse Recanati per portarsi alla sospirata Firenze: con quel canto e con quella data si chiudeva definitivamente il periodo idillico che noi consideriamo senza possibilità di riprese. Il Leopardi dava cosí un sicuro addio a Recanati, alla giovinezza che durava ancora come possibilità di ricordi, ed entrava in un nuovo mondo, in un nuovo periodo della sua vita che è chiaramente staccato da quello precedente anche da grezzi limiti di tempo e di spazio.

Uscito per sempre da Recanati, forse con la coscienza di non tornarvi mai piú, egli si stacca da quel mondo di ricordi e di inazione, da quella vita in cui non v’era nessuna anima capace di comprenderlo, in cui nessuna spinta intellettuale l’aveva toccato, e si crea un nuovo ambiente: quell’ambiente fiorentino che in parte già conosceva e che lo aveva chiamato a sé mediante l’aiuto del Colletta, destando nel suo animo un sentimento di gratitudine e quindi un desiderio di socialità, di amicizia che era d’altronde anche reazione all’esilio monotono nella cittaduzza natale. Nuove amicizie, possibilità nuove di vita letteraria e la gloria che solo adesso comincia ad illuminarlo, sollevano il suo animo ad una considerazione piú immediata e combattiva del presente e della vita. In questo periodo conosce il Ranieri, il De Sinner che lo persuade della sua grandezza filologica e gli offre la stampa sicura delle sue carte giovanili; in questo periodo è circondato con rispetto ed amore dalla compagnia del Vieusseux e degli altri scrittori della «Antologia». Uomini di alta levatura, signore di nobiltà come la Carlotta Bonaparte ricercano la sua conversazione e gli dimostrano la propria ammirazione. A questo clima piú carico di affetti, di relazioni spirituali ed intellettuali, corrispondeva una maggiore tensione nell’animo del poeta, una maggiore coscienza del proprio valore e piú netta, piú pura, la solita richiesta di vita vera, di vita spirituale. Il senso della personalità gli si va fortificando dal di dentro e si rassicura quasi per le conferme che ne trova all’esterno.

L’antico desiderio d’affetto, di socialità si riscontra ora quasi come sue creazioni, come proiezioni del proprio desiderio, le amicizie dell’ambiente fiorentino, lo svelarsi dell’anima nuova suscita intorno a sé una nuova atmosfera e il Leopardi dalla coscienza di questo suo potere trae maggiore incitamento all’affermazione chiara e precisa di se stesso.

Vive ora in una tensione impaziente di cui ci saranno prova alcune osservazioni tratte dallo studio del suo epistolario, che si va facendo verso gli ultimi anni piú robusto, impetuoso, impaziente. Ma se tutto il nuovo clima è ben corrispondente al suo animo teso, alla sua nuova potenza vitale, un intimo avvenimento predomina su tutti gli altri ed inizia il nuovo periodo: questo avvenimento essenziale per la vita del Leopardi è l’amore.

Dell’importanza che il Leopardi stesso dette all’amore ci è testimonianza sicura il pensiero lxxxii che mi sembra utile riportare frammentariamente:

Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatta una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la sua fortuna e lo stato suo nella vita... Agli altri il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni o da qualche passione grande cioè forte; e per lo piú l’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare. Ma accaduta che sia... certo all’uscire di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze; e oramai può far giudizio se e quanto gli convenga sperare o disperare di se, e, per quel che si può intendere del futuro, qual luogo gli sia destinato nel mondo. In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo; già mutata di cosa udita in veduta per lui, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa forse non piú felice, ma, per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di se e degli altri.

Certo l’argomento è cosí delicato che è facilissimo cascare o nella grossolana, minuziosa curiosità aneddotica che vorrebbe poi deterministicamente ritrovare nelle poesie di questo periodo i particolari di quel dato amore, o nell’esagerazione schifiltosa di chi rifugge da ogni dato, da ogni fatto come se poi il fatto, il fato non potessero venir rivissuti e compresi spiritualmente. Certo è ripugnante fermarsi sulle dicerie e sulle illazioni che i piccoli hanno raccolto sul conto di quest’amore, ma è anche ridicolo voler disconoscere il fatto in se stesso nella sua piú semplice ed essenziale importanza. Per me è fuori di dubbio che il Leopardi abbia amato una signora fiorentina: di tutto il resto mi sembra inutile occuparsi, dato che l’importante è il nuovo stato sentimentale in cui il Leopardi si trova all’inizio del nuovo periodo.

Il desiderio dell’amore è uno dei motivi fondamentali della vita del Leopardi, che si può rivedere tutta sotto questo speciale punto di vista, notando come questo anelito all’amore si intensifichi, si purifichi parallelamente al maturarsi di tutto lo spirito leopardiano.

Nel periodo piú giovanile l’aspirazione all’amore è torbida e confusa e nei primi idilli risente di quello speciale clima che fa rientrare la donna amata (o meglio desiderata) in tutto un naturale mondo di vita istintiva e felice di fronte a cui si contrappone la vita dolorosa e cosciente del poeta. Nella canzone Alla sua donna si ha il primo indice di quello che sarà il vero amore per il Leopardi: tutte le aspirazioni piú intime del poeta si fondono nella preghiera alla «Cara beltà», l’amore è fatto esponente di tutti i problemi che si agitano nella sua anima, ma il tono sostanzialmente è lontano da quello del nuovo periodo, un tono giovanile ed insieme stilizzato, di sacrifizio paradossale, opposto al tono caldo, vibrante, tragico del Pensiero dominante. Ed è da notarsi che la prima delle Operette indica l’amore come l’unica possibilità di vita felice, di superamento del pessimismo e dell’arido egoismo. Nei nuovi idilli poi l’amore è respinto nel ricordo e acquista quel carattere di vago, di nostalgico che è proprio della posizione del poeta di fronte alle figure di Silvia e Nerina.

Insomma c’è nei periodi precedenti l’aspirazione all’amore, ma non l’amore in atto come nell’ultimo periodo. In questo, nel nuovo clima spirituale, si apre l’unico, vero amore del Leopardi; non un determinato amore, un amore superabile, una esperienza rinnovabile (come avviene, ad esempio, nella vita del Foscolo), ma l’esperienza intima e universale, unica, colorata di fatalità, quasi nuova nascita dell’anima. Un’esperienza dopo la quale il Leopardi non può in nessun modo tornare quello di prima: «Sott’altra luce che l’usata errando». Quanto piú si accentuerà la natura spirituale, totale di questo amore e quanto piú d’altra parte lo si considererà umano, amore per una donna vivente ed animata, tanto piú se ne capirà l’importanza per tutto il nuovo periodo. Il Leopardi ama e non un’ombra, ma una donna, non un ideale astratto, ma un ideale incarnato di cui egli ha la precisa conoscenza, sí che quando dice «angelica sembianza, angelica beltade», ben altro calore sostiene queste espressioni cosí semplici, cosí universali di quando egli diceva ­«Cara beltà» cui corrispondeva solo una vaga aspirazione.

Perciò quest’amore cosí appassionato, cosí tragico apre il nuovo periodo con una nota di alta intensità, con tutta una nuova posizione eroica e virile che si continuerà per tutti i canti seguenti. Nell’amore si rivela la nuova anima leopardiana: un maggior senso del proprio io (ma dell’io meno aneddotico e piú profondo), un mostrare se stesso con un’insistenza o meglio con una tenacia che non si era avuta nella poesia precedente e che culminerà nella proposizione di sé come esempio agli uomini, nella Ginestra.

E già fin d’ora si può capire che una tale violenza sentimentale non poteva esprimersi idillicamente, con armonizzazioni calme, ben concluse, ma doveva aprirsi una nuova via, sboccare in una forma robusta, pugnace, a contrasti rapidi, a invocazioni assolute, a slanci pieni, sinfonici.

Questa potenza si rivela nell’amore, ma seguita anche quando l’amore vacilla od è finito, cosí che l’invocazione alla morte è un atto di vita, pieno dello stesso calore con il quale si invocava prima l’angelica sembianza; e con lo stesso calore e vigore personale il poeta disprezza tutta la vita o separa violentemente l’ideale dal reale, l’immagine dalla donna o si erige ad esempio degli uomini, detta una legge universale, morale, la cui attuazione gli sembra la salvezza dell’umanità.

La tensione iniziata con l’amore prosegue cosí attraverso gli altri momenti successivi, con pari forza, sennonché l’impeto si fa sempre piú austero, intimo, cosciente.

3. Che la nuova tensione spirituale e la pressione della personalità continuino per tutto il periodo da noi studiato, facendosi sempre piú intime e sicure, ci è dimostrato dalle prose di questi anni che rappresentano un’attività prosastica molto inferiore a quella dei periodi precedenti e che, a parte il valore artistico dei due dialoghi e dei pensieri, costituiscono soprattutto un utile sfondo ai nuovi canti, in cui la personalità pura del Leopardi si esprime.

Le lettere di questo periodo segnano anche come indice di relazioni amichevoli, un orientamento diverso da quello che si può osservare nelle lettere della giovinezza: il Giordani scompare dalla scena e subentra il Ranieri (i suoi Sette anni di sodalizio corrispondono esattamente agli anni ‘30-37) e questa sostituzione di amicizia significa nel Leopardi il bisogno di un cuore giovane, esuberante, spontaneo, invece di un uomo scettico, inaridito, letterato e divenuto per di piú, verso l’ultimo, quasi una bruttissima copia dello stesso Leopardi nei suoi lati pessimistici peggiori. Il tono di queste due corrispondenze è diversissimo: in quella col Giordani c’è piú che altro sfogo d’ambizione e insieme gioia di scrivere ad uomo celebre, in quella col Ranieri c’è una immediatezza senza paludamenti, una sincerità traboccante d’affetto, un’amicizia confinante con l’amore che indicano la nuova anima leopardiana, vigorosa in ogni sua manifestazione.

I biglietti al Ranieri, scritti nel ’32-33, nel periodo di maggiore passione per la Targioni Tozzetti, testimoniano, nella loro brevità piú vocativa che narrativa, di uno stato di tensione concitata, di un Leopardi tutto calore di sentimento, tutto slanci di tenerezza e sprezzante di ogni compromesso, vivo nel presente, nell’attuazione piú violenta dei propri interni impeti. Sono espressioni travolgenti («Amami, anima mia e non iscordarti, non iscordarti di me»), che confinano con uno stato di ebbrezza («Io sono minacciato di perdere la vista e non posso scrivere: ma senti, Ranieri, ricordati per la memoria del tempo passato insieme, ch’io voglio, per Dio!, ribaciarti prima di morire») e si atteggiano a mosse passionali, quasi incuranti della sintassi («Ranieri mio, ti sospiro come il messia. S’io posso abbandonarti, tu lo sai bene. Ti mando mille baci»). Accenti di appassionato bisogno di affetto che ritornano in parecchie altre corrispondenze di questo periodo e ad esempio in quella col De Sinner cui il Leopardi scriveva frasi di questo tipo: «Voi mi dite che la nostra amicizia deve durare al di là della vita. Io non so esprimervi quanto queste parole mi consolino. Sí, certo, mio prezioso amico, noi ci ameremo finché durerà in noi la facoltà d’amare».

Sia nelle dimostrazioni d’affetto, sia nelle invocazioni della morte, sia nelle affermazioni della propria dignità, l’accento cade sempre sul carattere vigoroso e appassionato di ogni suo atto spirituale. Sia che offra e chieda amicizia, sia che disprezzi gli uomini e confermi le proprie convinzioni, è sempre la sua personalità che prorompe, conscia della propria unicità e insieme del proprio valore universale; è sempre quella sua nuova forza spirituale che provoca mosse di profonda energia anche nelle meno significative di queste lettere. Anche se parla della propria infelicità il tono non si abbatte, non si abbandona, ma è alto, tragico, di superiorità alle bassezze degli uomini («la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità non comporta l’uso delle querele»), ed ora tanto è in lui intimo questo tono eroico che perfino scrivendo al padre, malgrado il rispetto dimesso che l’autorità paterna in quel genere di educazione ottocentesca richiedeva, afferma apertamente la sua virilità sdegnosa e coerente. La sua compattezza spirituale, la ferma certezza delle sue idee sono palesi in tutta quest’ultima parte dell’epistolario, fino alla tarda lettera al Lebreton, cui, accennando a quel tono di franchezza e sincerità che corrisponde alla sua nuova coscienza eroica e religiosa, scriveva: «Soyez sûr, qu’il n’y a d’autre convenance à garder avec moi que de dire ce que l’on sent».

Piú direttamente si avverte questo tono vigoroso in certe lettere di dichiarazione di fede come quella famosissima al De Sinner, nella quale rispondeva violentemente a coloro che accusavano il suo pessimismo di essere causato dalle sventure fisiche. C’è una fermezza, un calore morale, una pugnacità compressa che non c’erano ancora nel Leopardi precedente, neppure nel Bruto minore che egli citò forse solo a scopo polemico, per mantenere la salda unità di tutta la propria vita, ma che in realtà è tanto piú gesto, bestemmia e tanto meno vissuta convinzione.

Insomma, nelle lettere di questo periodo (avremmo potuto fare, volendo, abbondantissime citazioni) ritroviamo le conferme di un invigorimento della personalità leopardiana e delle sue convinzioni, e soprattutto il tono forte, personale che riteniamo caratteristico del nuovo periodo.

Negli ultimi anni poche sono le prose oltre le lettere, infatti lo Zibaldone finisce nel ’32 con pochi appunti già improntati al nuovo spirito e cioè meno culturali e piú intimi alle esigenze nuove del poeta. Ciò vuol dire che il Leopardi non sente piú il bisogno strettamente speculativo, che le sue energie spirituali si unificano in un’unica espressione che non permette in linea di massima altre forme di espressione parallele. Vuol dire che il Leopardi è meno disperso e che non si può piú parlare di un Leopardi filosofo accanto ad un Leopardi poeta, ma solo di un Leopardi che esprime se stesso e le sue piú intime convinzioni in un’unica forma originale, personale.

Le due ultime operette del ’32 e i Pensieri del ’34-36 sono le uniche eccezioni in proposito, ma rappresentano un’attività un po’ in margine e costituiscono soprattutto una prova della nuova personalità leopardiana.

Delle due operette, la prima (Dialogo di un venditore di almanacchi) è quasi una breve fantasia tenuta su con battute rapide, poco prosastiche:

Come quest’anno passato?

Piú, piú anzi.

Come quello di là?

Piú, piú illustrissimo.

e la soluzione è piuttosto pratica che teorica:

Vorrei una vita cosí, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

La seconda (Dialogo di Tristano e di un amico) è molto piú significativa e, specie alla fine, è indice notevolissimo della nuova forza morale del Leopardi: disprezzo dei piccoli e coscienza di se stesso come portatore di vera saggezza. Sembra procedere dalla lettera al De Sinner e preludere alla Ginestra: «E giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi ed oltre ai mali che soffrono esser quasi lo scherno della natura e del destino... E di piú vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino o vengo seco a patti come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte e desiderarla sopra ogni altra cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità con quanto credo fermamente che non sia desiderata se non da pochissimi». Questo accento vigoroso è reso piú secco, piú lapidario, ma anche artisticamente meno notevole, nei Pensieri che rientrano in quel momento di preparazione alla Ginestra, che comprende anche i Paralipomeni, la Palinodia e I nuovi credenti.

La loro mancanza di unità artistica è stata già notata ed io credo del resto che il Leopardi non intendesse affatto dar loro uno speciale valore e non vi annettesse quell’importanza che acquistarono poi dall’essere raccolti a parte nell’edizione fattane dal Ranieri. Sono sí alcuni accenni potenti che fanno riconoscere il poeta dei nuovi canti, come quando, ad esempio, chiama i negozianti, che disprezzano la morte per i loro meschini scopi di lucro, «eroi vili», vi sono forti intuizioni psicologiche sulle relazioni sociali, concepite come contrasto di pochi buoni deboli e molti cattivi forti, ma in sostanza direi che nei Pensieri si sia riversato piú l’acido, il velenoso, che non il generoso, l’elevato del Leopardi e che chi volesse ricavare un ritratto dell’intero Leopardi dai Pensieri, ne ricaverebbe un’impressione limitata, immiserita. C’è nei Pensieri la saggezza spicciola del Leopardi, le riflessioni sull’epoca romantica («i giovani assai comunemente credono rendersi amabili fingendosi malinconici»), le chiacchierate sull’irrequietezza e scontentezza umana e tanto cinismo amaro, di vendetta: «Il mondo è simile alle donne: con verecondia e con riserbo da lui non si ottiene nulla», «E il mondo è come le donne, di chi lo seduce, gode di lui e lo calpesta». Solo in alcuni pensieri risuona l’accento piú puro e profondo della sua vera personalità: cosí specialmente nel lxviii che fa le lodi della noia, «il piú sublime dei sentimenti umani», caratterizzando la nobile insoddisfazione romantica propria dell’animo leopardiano e nel lxxxii, già citato, in cui il poeta mostra chiaramente quale importanza annettesse all’esperienza dell’amore che apre il periodo della sua maturità.

Tutte queste osservazioni, ricavate dallo studio delle prose di questo periodo, vanno ricollegate all’osservazione cardine di tutto questo capitolo: che il Leopardi è diventato piú grande spiritualmente, padrone della propria anima unificata, che il suo piano di vita è diverso, piú virile di quello precedente e che un tale rinnovamento intimo doveva esprimersi con quell’accento spiccatamente personale che s’incarna nella nuova poesia. Ché tutte le espressioni in prosa non sono che lo sfondo e ci direbbero ben poco circa il vero Leopardi se non ci fossero i nuovi canti e cioè l’espressione piú pura della nuova personalità del poeta.

4. La nuova ampiezza spirituale del Leopardi corrisponde dunque ad una nuova poesia che è caratterizzata appunto dalla prepotenza espressiva con cui la nuova personalità si manifesta. È perciò una poesia lirica nel senso piú tradizionale della parola e cioè soggettiva, espressione personale, della piú pura Ichkeit (in italiano non c’è parola che indichi tanto bene un io individuale puro). È un’espressione unitaria, antidillica, ed insieme lontana da ogni freddo didascalismo, tutta rampollante dal presente, opposta ad ogni evasione. Perciò si può chiamare eroica e con quante altre denominazioni significhino questo carattere fondamentale di vigoroso accento di una personalità robusta, ribelle e fiera anche nella rassegnazione.

In una stretta considerazione estetica la nuova forma consiste proprio in questa vigoria non armonica, ma impetuosa, larga, a contrasti e a slanci, tesa e tenace. E se si vuole scendere a particolari (il che verrà fatto concretamente nelle analisi dei due capitoli successivi) si troverà un insieme di speciali modi poetici che acquistano giustificazione ed unità se ricondotti all’accento fondamentale di questa forma personale e vigorosa. Si noterà un costante disprezzo della trovata e una grande semplicità di motivi, una ricerca di parole forti, energiche, non vaghe e nostalgiche come quelle degli idilli, un uso molto sobrio di paragoni stesi per lo piú con una disinvoltura abile e con poco colorito.

Il quadretto gustato a sé e campeggiante sul resto del componimento non trova luogo in questa poesia, sempre per quell’interesse altamente individuale e vigoroso che elimina tutto ciò che non sia espressione della personalità del poeta. Si sfugge sempre piú ogni limite, l’armonizzazione di centro e sfondo e si cerca l’impeto che trasporta e giustifica i momenti piú sbrigativi e piú fiacchi. Perché in questa poesia sono inevitabili degli squilibri, dei punti piú deboli di fronte ad intensità fortissime ed è naturale che là dove l’ispirazione centrale manca, nascano cose mediocri, con finezze particolari, ma non sostenute da quel soffio potente che è dato dalla pressione tenace della personalità.

Si spiega cosí la mediocrità del Consalvo e la debolezza di certe parti di Amore e morte. Ma è altra caratteristica del nuovo periodo poetico una squisitezza di gusto che si fa sempre piú fine, piú signorile, sí che anche in momenti piú freddi e meno ispirati nascono poesie nobili e squisite come le due sepolcrali. Ad ogni modo la tendenza essenziale di questa forma è di calcare i toni vigorosi, di far sentire l’impeto e la forza morale del poeta.

Naturalmente i procedimenti stilistici cambiano durante questi sette anni di creazione e se all’ultimo predominano larghe frasi libere e ampiamente articolate, mentre all’inizio si affermano potenti concentrazioni in cui l’impeto è non smorzato, ma contenuto, quello che resta costante è l’anima di tutto ciò, l’accento vibrante della personalità combattiva ed eroica del poeta.

L’originalità, la novità di questo accento sono stati messi in dubbio da chi ha voluto riconnetterli all’accento, alla forma del primissimo periodo leopardiano, facendo cosí di tutta la poesia leopardiana un arco con al culmine gli idilli e, agli estremi, da una parte le prime canzoni, dall’altro i nuovi canti. Ammetto senz’altro che non manchino delle analogie esterne fra le prime e le ultime canzoni, come pure che vi siano differenze fra le poesie fino all’Aspasia e le seguenti, ma mi sembra che in ambedue i casi si faccia una questione contenutistica e superficiale. Infatti quanto all’unione delle prime canzoni con le ultime (e non tutte ma solo quelle di carattere amoroso), si astrarrebbe completamente dall’ipotesi di un nuovo accento e si trascurerebbe l’affinamento artistico compiuto dal Leopardi attraverso le Operette e i grandi idilli, da una forma (specie nelle canzoni patriottiche) discontinua, attaccata spesso all’imitazione, soffocata dalla cultura ad una forma cosí assoluta, complessa, cosciente. Si dirà che l’avvicinamento era fatto sub specie aeternitatis, ricercando motivi ideali, ma quale valore avrà un confronto fra un artista completamente maturo e un momento inferiore del suo svolgimento?

E se si vuol fare solo caso all’atteggiamento spirituale, si dovrà riconoscere che c’è una grande differenza fra la prima richiesta di vita, non chiara, sensuale e la purissima affermazione di aderenza all’ideale, di coscienza del proprio io, nel Leopardi maturo e formato. Nelle canzoni patriottiche il vate è un misto di letterato (che deriva i suoi motivi dalla tradizione retorica italiana: Testi, Filicaia...) e di demagogo da tavolino; nei nuovi canti il vate è un’austera personalità che si esprime oltre ogni irrequietezza egoistica, un qualcosa di simile agli antichi poeti-filosofi-fondatori di religioni. Anche l’eloquenza e l’apparente retorica del nuovo Leopardi sono tutt’uno colla sua forma, create dall’intimo del suo animo, mentre nelle prime canzoni sono gesto, entusiasmo fittizio, realizzato solo dentro forme staccate dalla vera originalità del poeta.

Mentre si è giunti a questo avvicinamento di due momenti diversi per una troppo scarsa considerazione dello sviluppo poetico, e quindi, in senso larghissimo, della cronologia si arriva invece all’altro errore di staccare un ipotetico periodo fiorentino-amoroso da quello immediatamente successivo, proprio per l’esagerata importanza data alla cronologia e ai motivi esterni, biografici. Ché a voler sofisticare ci sarebbe da distinguere quanto ad atteggiamento, ogni poesia dalla successiva; ma allora quale valore acquisterebbero queste suddivisioni che finiscono per identificarsi con le singole unità poetiche? E, del resto, non avviene lo stesso nel periodo degli idilli, nel quale si potrebbero distinguere un periodo pisano da uno recanatese, un momento di ricordanza da uno di contemplazione cosmica?

Il fatto è che qua come là, l’unità di un periodo non può essere data che dall’accento fondamentale e che le varie differenze devono essere considerate come indici di nuove situazioni e semmai di sviluppo di una tendenza.

Ora, in quest’ultimo periodo c’è un unico tono che unifica le poesie che vanno dal Pensiero dominante al Tramonto della luna, c’è un’unica forma sia che Leopardi canti la sua adorazione al pensiero d’amore, sia che disprezzi la vita, sia che affermi la necessità di un’unione fra gli uomini contro la natura.

Dopo aver accennato al nuovo piano spirituale su cui Leopardi si trova, alla sua concretezza d’anima, all’unità di tutto il periodo, compito del mio studio è rispondere alla domanda: in che consiste la nuova forma leopardiana, in che consiste questo nuovo tipo di poesia?

Finora infatti non ne ho parlato che dal di fuori, anticipando solo alcune affermazioni sui caratteri della forma dei nuovi canti che potranno avere valore critico solo se provate dall’esame delle stesse poesie: il problema della nuova forma si risolve dunque in quello particolare dei singoli componimenti, dal quale poter poi risalire a positive conclusioni estetiche.

Nel capitolo seguente ricercherò perciò nelle poesie che io reputo le piú concretamente realizzate di tutto il periodo, i caratteri della nuova forma; poi delle altre poesie, che mi sembrano quasi di pausa o di preparazione, mi servirò soprattutto per mostrare la finezza del nuovo gusto, anche dove l’ispirazione piú profonda è stata meno presente, l’accento personale meno forte. E a questo scopo mi servirò anche delle correzioni apportate dal poeta ai canti precedenti nell’edizione napoletana del ’35.


1 Anche altri poeti romantici (ad es. De Vigny) mirarono a forme di questo tipo, unitarie, espressione immediata di alti bisogni filosofici e morali.